Una delle favole sui cani più famosa di Gianni Rodari.

Il paese dei cani

C’era una volta uno strano piccolo paese. Era composto in tutto di novantanove casette, e ogni casetta aveva un giardinetto con un cancelletto, e dietro il cancelletto un cane che abbaiava.

Facciamo un esempio. Fido era il cane della casetta numero uno e ne proteggeva gelosamente gli abitanti, e per farlo a dovere abbaiava con impegno ogni volta che vedeva passare qualcuno degli abitanti delle altre novantotto casette, uomo, donna o bambino.

Lo stesso facevano gli altri novantotto cani, e avevano un gran da fare ad abbaiare di giorno e di notte, perché c’era sempre qualcuno per la strada.

Facciamo un altro esempio. Il signore che abitava la casetta numero 99, rientrando dal lavoro, doveva passare davanti a novantotto casette, dunque a novantotto cani che gli abbaiavano dietro mostrandogli fauci e facendogli capire che avrebbero volentieri affondato le zanne nel fondo dei suoi pantaloni. Lo stesso capitava agli abitanti delle altre casette, e per strada c’era sempre qualcuno spaventato.

Figurarsi se capitava un forestiero. Allora i novantanove cani abbaiavano tutti insieme, le novantanove massaie uscivano a vedere che succedeva, poi rientravano precipitosamente in casa, sprangavano la porta, passavano in fretta gli avvolgibili e stavano zitte zitte dietro le finestre a spiare fin che il forestiero non fosse passato.

A forza di sentir abbaiare i cani gli abitanti di quel paese erano diventati tutti un po’ sordi, e tra loro parlavano pochissimo. Del resto non avevano mai avuto grandi cose da dire e da ascoltare.

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Pian piano, a starsene sempre zitti e immusoniti, disimpararono anche a parlare. E alla fine capitò che i padroni di casa si misero ad abbaiare come i loro cani. Loro forse credevano di parlare, ma quando aprivano la bocca si udiva una specie di “bau bau” che faceva venire la pelle d’oca. E così, abbaiavano i cani, abbaiavano gli uomini e le donne, abbaiavano i bambini mentre giocavano, le novantanove villette sembravano diventate novantanove canili.

Però erano graziose, avevano tendine pulite dietro i vetri e perfino gerani e piantine grasse sui balconi.

Una volta capitò da quelle parti Giovannino Perdigiorno, durante uno dei suoi famosi viaggi. I novantanove cani lo accolsero con un concerto che avrebbe fatto diventare nervoso un paracarro. Domandò una informazione a una donna ed essa gli rispose abbaiando. Fece un complimento a un bambino e ne ricevette in cambio un ululato.
“Ho capito, – concluse Giovannino – E’ un’epidemia”.

Si fece ricevere dal sindaco e gli disse: “Io un rimedio sicuro ce l’avrei. Primo, fate abbattere tutti i cancelletti, tanto i giardini cresceranno benissimo anche senza inferriate. Secondo, mandate i cani a caccia, si divertiranno di più e diventeranno più gentili. Terzo, fate una bella festa da ballo e dopo il primo valzer imparerete a parlare di nuovo”.
Il sindaco gli rispose: “Bau! Bau!”.

“Ho capito, – disse Giovannino, – il peggior malato è quello che crede di essere sano”.
E se ne andò per i fatti suoi.

Di notte, se sentite abbaiare molti cani insieme in lontananza, può darsi che siano dei cani cani, ma può anche darsi che siano gli abitanti di quello strano, piccolo paese.

Significato morale della favola: il conformismo e l’inerzia mentale

La favola “Il paese dei cani” ci serve come un’amara e ironica metafora della nostra tendenza a conformarci e a perdere il senso critico. In pratica, ci mette in guardia contro quel pericoloso fenomeno in cui, a forza di imitare comportamenti stupidi (in questo caso, l’abbaiarsi a tutto e tutti), si finisce per non saper più distinguere tra essere umani e diventare… beh, dei cani.

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Ecco il succo, con un pizzico di sarcasmo:

  1. Conformismo a ogni costo: nel paese in cui tutto è regolato dal “bau bau” quotidiano, la gente non si preoccupa di pensare autonomamente o di comunicare realmente. Così, anziché usare il cervello, si limita a ripetere il rumore di sempre. Un po’ come dire: “Perché impegnarsi a esprimersi quando basta abbaiare?”
  2. L’epidemia del cattivo esempio: la situazione peggiora quando persino i padroni, ossessionati dalla stessa abitudine dei loro cani, si trasformano in imitatori delle bestie. La morale qui è chiara: il peggior malato è proprio quello che crede di essere in perfetta forma. In altre parole, chi si accontenta del proprio status quo (per quanto ridicolo esso sia) diventa il principale responsabile del declino collettivo.
  3. Critica all’inettitudine burocratica: il sindaco che risponde “Bau! Bau!” alle proposte di cambiamento simboleggia l’inerzia e l’incapacità delle autorità di rompere il circolo vizioso. È una critica tagliente a quei leader che, invece di proporre soluzioni concrete, si limitano a ripetere gli stessi vecchi schemi, trasformando l’intera comunità in un perpetuo coro di suoni senza senso.
  4. La trappola del conformismo sociale: infine, la favola ci ammonisce: se non facciamo qualcosa per rompere queste abitudini, rischiamo di perdere la nostra umanità. Diventare un branco di “cani-cittadini” non è certo il massimo della realizzazione personale o sociale, per quanto i balconi curati e i gerani possano cercare di mascherare il problema.

Insomma, il messaggio sarcastico è questo: se continuiamo a seguire ciecamente la massa e a non stimolare il nostro pensiero critico, non faremo altro che abbaiarci dietro alle convenzioni, fino a trasformarci in un triste eco di mediocrità. Quindi, la prossima volta che sentirai qualcuno “abbaiare” un’idea senza senso, ricorda: forse non è una critica, ma semplicemente un altro abitante del paese dei cani!

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Il paese dei cani favola di Gianni Rodari con morale

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