Come si raggiunge la gioia incondizionata? Insegnamenti di Jean-Klein, maestro della tradizione Advaita Vedanta.

Estratto dal libro “La Gioia senza oggettoEdizioni Savitri scaricabile qui.

Confusione del soggetto con l’oggetto

[Domanda] E’ facile renderci conto che noi siamo condizionati dalla nostra eredità biologica, zoologica, dal nostro psichismo infantile, dal nostro passato politico, economico, culturale… Io domando: è possibile liberarci da questo condizionamento e sottrarci alla sua presa? Se si, quali sono i passi che suggerisce per arrivarci?

[Risposta di Jean-Klein] Per giungere a questo risultato dobbiamo fare conoscenza con noi stessi, con il nostro corpo, il nostro psichismo, lo svolgimento abituale del nostro pensiero. Bisogna procedere ad una investigazione sul vivo, cioè senza idee preconcette. Generalmente ciascuno di noi si sforza per sostituire il suo opposto al comportamento che giudica riprovevole: collerici, cerchiamo di diventare pacifici, e con questo non facciamo altro che complicare il nostro condizionamento; oppure ci facciamo tentare da evasioni di vario genere. Con questo modo di fare ci condanniamo a girare in tondo in un circolo vizioso. Solo un atteggiamento di osservazione distaccata, obiettiva, come dicono le persone di scienza, ci permetterà di conoscerci come veramente siamo, ci farà scoprire spontaneamente le attività del nostro corpo, della nostra mente, gli itinerari del nostro pensiero e le nostre motivazioni.

In un primo tempo l’osservatore trova qualche difficoltà ad essere impersonale e senza scelta; egli dinamizza l’oggetto, se ne rende complice. Poi gli si presentano, via via più spesso, istanti di chiaroveggenza, finché viene un momento in cui tra l’osservatore e l’oggetto si stabilisce una zona neutra, e i due poli perdono la loro carica. L’osservatore è allora silenzio e immobilità, e l’oggetto condizionato non è più alimentato.

Le motivazioni interiori

[Domanda] Potrebbe parlarci delle motivazioni?

[Risposta] In certi momenti, soli con noi stessi, sentiamo una grande carenza interiore. Questa è la motivazione-madre, che genera le altre. Il bisogno di colmare questa carenza, di estinguere questa sete, ci spinge a pensare, ad agire. Senza neppure soffermarci a interrogarla, sfuggiamo da questa insufficienza, cerchiamo di ammobiliarla talora con un oggetto, talora con un progetto, e poi, delusi, corriamo da una compensazione a un’altra, di fallimento in fallimento, da un dolore ad un altro, da una guerra all’altra. E’ il destino a cui son votati i comuni mortali, coloro i quali si rassegnano a questo stato di cose, e che lo ritengono inerente alla condizione umana.

Vediamolo un po’ più da vicino. Ingannati dalla soddisfazione che ci forniscono gli oggetti, constatiamo che finiscono col darci sazietà e persino indifferenza, che ci fanno contenti un istante, ci portano alla non-carenza, ci fanno tornare a noi stessi, e infine ci stancano; essi hanno perduto la loro magia evocatrice.

La pienezza che abbiamo sentito non si trova dunque negli oggetti, ma in noi, e noi concludiamo a torto che essi siano stati gli artefici di quella pace. L’errore sta nel considerare questi ultimi come condizione sine qua non di quella pienezza.

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In quei momenti di gioia questa esiste di per se stessa, null’altro è là. In seguito, rievocando quella felicità, le sovrapponiamo un oggetto che crediamo ne sia stato la causa, e così facendo oggettiviamo la gioia. Se constatiamo che questa prospettiva che ci siamo costruiti non può portarci altro che una felicità effimera, che essa è incapace di darci quella pace durevole che si trova in noi stessi, finiremo col capire che nel momento in cui saremo pervenuti a quell’equilibrio esso non è stato provocato da alcun oggetto; e che la contentezza definitiva, gioia ineffabile e inalterabile, senza motivo, è da sempre presente in noi. Essa ci era soltanto velata.

La gioia non-duale

[Domanda] Vorrebbe parlarci della prospettiva obiettiva e dei suoi rapporti con la gioia non-duale?

[Risposta] Per collocare correttamente l’esperienza mi pare indispensabile analizzare a fondo la natura dell’oggetto che per errore è stato ritenuto la causa, la fonte stessa della gioia. Se esaminiamo con onestà la sfera oggettuale siamo costretti ad ammettere che essa è costituita soltanto da dati sensibili cui attribuiamo un’ipotetica esistenza, indipendente dalla nostra percezione. In effetti noi conosciamo solamente le nostre percezioni o sensazioni sotto la forma visiva, uditiva, tattile ecc. A questa sensazione sovrapponiamo l’idea di un oggetto che riteniamo ciò che ci procura, per mezzo di questi intermediari sensoriali, quella pienezza che in ultima istanza è il movente profondo della nostra ricerca.

Dal momento in cui abbiamo capito, come vi dissi pocanzi, che il detto oggetto è solo un’idea e non contiene ciò che gli chiediamo, interviene un’eliminazione. La sensazione che sovrapponiamo alla percezione sparisce per mancanza di base; e non è che noi la eliminiamo, ma essa si elimina da sé. Noi non dobbiamo staccarci dagli oggetti; sono essi a staccarsi da noi come il frutto maturo cade dal ramo.

Rifiutare o prendere? Lo stato senza desideri

[Domanda] Si possono prendere o rifiutare gli oggetti; qual è la differenza tra questi due modi di procedere?

[Risposta] I due modi sono identici: rifiutare o prendere è la stessa cosa; questi due modi di procedere conducono a un nuovo conflitto. Esiste invece uno stato senza desiderio, quando non cercate più di compensare, c’è la “soddisfazione”, ed è uno stato senza desideri.

Non si tratta del fatto di rifiutare l’oggetto, ma di constatare che esso non cela in sé ciò che cercate. Se credete di aver posto una cosa che vi occorre in un dato luogo, andate a cercarla e non la trovate. Ricominciate a cercare, anche due o tre volte; finché avete guardato per ogni dove e non avete trovato nulla. Che succede? E’ il luogo ad abbandonarvi come contenitore di ciò che cercavate, voi non abbandonate il luogo. Alla stessa maniera, l’oggetto vi lascia.

E’ un processo estremamente organico. Se questa eliminazione è stata compiuta in modo totale, dopo la sottrazione, quando non si è omesso nulla, senza alcun residuo, ci troviamo rimandati a noi stessi, a ciò che siamo essenzialmente: è uno stato di solitudine, di silenzio, nel quale ci si desta.

Questo silenzio, questa attenzione pura è – mi sia lecito esprimermi così – una attenzione all’attenzione, essa è spoglia di ogni concetto di durata, di volume, tempo e spazio, e di fatto questa sede della consapevolezza, questo nucleo, questo asse di gravità del nostro essere, attorno al quale si innesta la personalità, contiene la nostra vera natura, che è al di là di ogni condizionamento. E’ la sola via per arrivarci.

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Solo in questo modo abbiamo la possibilità di regolarizzare la nostra natura corporea, psichica, mentale. Se si fanno altri tentativi di decondizionamento mediante un approccio psicologico ci troviamo davanti a un problema irrisolto, perché non c’è stato altro che un trasferimento di energie che prima si trovavano in un certo punto; noi le trasportiamo altrove, ma non è in questo modo che le liberiamo.

Solo il regolatore ultimo, la coscienza, la non-personalità, ha la capacità di liberare la nostra natura biologica, affettiva e mentale.

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Asservimento all’ego

[Domanda] In che senso Lei usa il termine “coscienza regolatrice”?

[Risposta] In genere noi viviamo in ciò che potremmo chiamare la personalità, l’ego; ci troviamo sempre davanti a delle scelte, vogliamo ciò che piace, evitiamo ciò che dispiace, cerchiamo la simpatia e fuggiamo l’antipatia. Si potrebbe dire che tutta la struttura che corrisponde alla nostra personalità è costruita in funzione di questo ego. Esso sfrutta il corpo, il pensiero e la psiche e interferisce nel loro svolgimento naturale. Noi impieghiamo soltanto una parte della nostra virtualità; la nostra cerebralità utilizza più o meno un terzo di quello di cui siamo capaci.

Se questo fatto è constatato, se nel momento in cui oggettivizziamo questo modo d’essere ci poniamo spontaneamente al di fuori di esso, recuperiamo la natura di chi lo osserva e possiamo dire che occupiamo ormai uno stato impersonale che è l’essenza della nostra personalità, la fonte di ogni sentimento profondo, il luogo di osservazione di tutte le esperienze, che però non si identifica col corpo, la mente, il pensiero. La nostra personalità vi si integra, vi trova il proprio centro di gravità. E’ in questo senso che si può dire che questa coscienza è regolatrice, non in un senso attivo; essa agisce attraverso la sua sola presenza.

Partendo da questa non-personalità, che si può anche chiamare la posizione della non-scelta, la scelta avviene spontaneamente, senza il nostro intervento.

Questa posizione è morale, etica, estetica e funzionale perché è sempre adatta a una situazione data e non le occorrono regole né restrizioni; solo allora corpo e mente trovano la loro libertà, le loro possibilità illimitate. Ma la coscienza non interviene come un regolatore attivo, essa ne gioca il ruolo grazie alla sua semplice presenza, e non a causa di un dinamismo orientato.

Sicurezza e insicurezza

[Domanda] Vedo: il punto di vista nel quale mi pongo di solito è quello dell’ego, e vi trovo la paura, l’insicurezza, un malessere: ho seguito la strada che Lei suggerisce, la quale sbocca nella convinzione che la sicurezza non si colloca in un mondo di cose – il mondo è essezialmente insicurezza – e poiché gli oggetti sono solo pensieri, essi mi abbandonano quando ho riconosciuto la loro inettitudine a soddisfare questa sete di sicurezza.

[Risposta] Sicurezza e insicurezza non sono che pensieri, concetti, idee. La vera sicurezza incapsula la dualità sicurezza/insicurezza e si sperimenta in un silenzio vigile.

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La posizione di non-scelta

[Domanda] Lei ha precisato che in quella che Lei chiama “posizione di non scelta” si è adeguati a qualsiasi situazione, e che ciò accade forzosamente. Perché?

[Risposta] La posizione della scelta è frammentaria. Quando voi partite da un frammento, segue un’azione frammentaria che genera un conflitto e uno squilibrio. La posizione di non-scelta implica una disponibilità totale davanti all’attuale; l’azione che ne risulta nasce dall’armonia implicita dell’unità della vita, che non comporta né contrario né contraddizione.

La posizione della realtà ultima è unità. Al di fuori non esiste nulla. Noi trascendiamo allora il triplice tempo: passato, presente e futuro, la dualità del bene e del male, il “mi piace” e il “non mi piace”, in cui si è in uno stato positivo o negativo. E’ una situazione libera da ogni memoria, di totale insicurezza, ma nella quale troviamo la pienezza costante.

In quel momento se qualcuno vi offre una stampella per procurarvi una pretesa sicurezza, si crea l’insicurezza, come se aveste trovato un equilibrio perfetto per camminare su una corda, e bruscamente vi si volosse prendere per mano per sostenervi; questo vi farebbe perdere l’equilibrio.

I conflitti sociali

[Domanda] Dobbiamo disinteressarci dei conflitti sociali?

[Risposta] Questi conflitti nascono dalla nostra visione imperfetta delle cose. Se si parte da uno squilibrio non si può far altro che provocarne altri allo stesso livello. I sociologi e gli economisti che credono di poter correggere il disordine sociale agendo sulla collettività immaninano che la mancanza di fiducia imperversante non dipenda dall’individio in sé, mentre invece dipende direttamente da lui.

Non possiamo cambiare in nulla la nostra società: siamo noi a dover mutare.

Se abbandoniamo l’ego per collocarci nella pura coscienza non abbiamo più problemi, mentre ne produciamo continuamente di nuovi se occupiamo un punto di vista personalizzato; li cambiamo di posto, ma essi rimangono. Il mondo in sé non ne presenta nessuno; siamo noi che li creiamo da cima a fondo.

Finché l’uomo considera il proprio corpo come se stesso, resta soggetto alle ghiandole, alle secrezioni interne, a quello che chiamerei il condizionamento corporale; se invece si rende conto che il corpo non ha alcuna realtà, voglio dire alcuna esistenza autonoma, che esso dipende da colui che lo percepisce, allora egli constata che in fondo non è che un oggetto.

Sopravviene allora una cosa straordinaria: l’uomo cessa di esser complice di tutta questa “eredità”, si allinea e si equilibra secondo il punto di vista impersonale, la sua azione è disinteressata, conforme a tutte le situazioni, a tutte le condizioni, a tutti i problemi e si produce un dilatarsi nel quale il corpo trova la propria saggezza: la coscienza è il focolare dal quale le scintille escono e si disperdono; noi ci identifichiamo con esse per errore, ma in questo centro è abolita la dualità.

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