Come controllare la mente durante la meditazione: tecniche e presenza mentale.

Una volta assunta la posizione del loto, calmato il corpo e il respiro, e indotto lo stato di benessere, anche la mente è più tranquilla e trasparente; ma non per questo cessa di funzionare o si mette a obbedire alla volontà. Lo scopo della meditazione, a questo punto, è di ottenere anche il suo controllo. Infatti, come dice la Katha-upanisad, «chi tiene le redini della propria mente, raggiunge la meta del viaggio».

Tuttavia, mentre il corpo può essere messo a tacere attraverso l’immobilità e il rilassamento, le interferenze dovute alla mente, conscia e inconscia, sono continue e più difficili da trattare.

Come il cuore, la mente non smette mai di lavorare: anche di notte continua a produrre pensieri, sogni e immagini. Dentro di noi risuona un chiacchiericcio senza soste, un dialogo interiore che non smette mai. Una volta seduti, ci accorgiamo di questo flusso instancabile di idee, sensazioni, riflessioni, pensieri, emozioni, sentimenti, ricordi, immagini, paure, ansie, desideri, atti di volizione, fantasie, ecc.
Eppure è dal controllo di questa attività che dipende la riuscita o meno della meditazione, nonché della nostra felicità e della nostra stessa vita. Come dice la Maitry-upanisad, «per gli uomini la mente è l’unica causa di schiavitù e di liberazione; se aderisce agli oggetti dei sensi, è causa di schiavitù: se è vuota di ogni oggetto, è causa di liberazione».

La mente è il nostro massimo patrimonio, la nostra più eccelsa facoltà, ma in molti casi il suo enorme potere si ritorce contro di noi. Non siamo noi a controllare la mente; è la mente — ormai resa autonoma— che ci domina. «Per colui che la controlla» dice la Bhagavad-gita «è la migliore amica; ma per colui che non riesce a farlo è la peggior nemica.»

Tecniche di controllo della mente durante la meditazione

Una prima tecnica di controllo consiste nell’approfittare dell’impercettibile intervallo che esiste fra un pensiero e l’altro. Proprio come quando nella respirazione c’è un attimo in cui finisce l’espirazione e non è ancora incominciata l’inspirazione, così nell’attività mentale acquietata esiste un attimo di vuoto fra un’onda mentale e l’altra. È questa pausa che si deve prolungare, magari facendola coincidere con l’arresto della respirazione (kumbhaka) e con la fissazione degli occhi nel centro fra le sopracciglia o sulla punta del naso.

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Un secondo metodo consiste nel cercare di contrastare il pensiero, tagliandolo alla base (la «roncola yogica»), ossia stornandolo violentemente. Ma questa lotta è impari e può aver successo solo per pochi istanti, come nel caso della meditazione yoga. Infatti, al pensiero si sostituisce un atto di volizione, un atto di controllo, che è a sua volta un atto mentale, da cui poi bisognerà liberarsi, e così all’infinito.

Un terzo metodo consiste non nel contrastare i pensieri, ma nel prenderne nota («Penso questo… sento questo… immagino questo», oppure: «Un pensiero… un suono… un’immagine…»). La mente continua a lavorare, quasi per conto suo, e il meditante ne diventa l’osservatore, il testimone. I pensieri vengono trattati come nuvole che attraversano un cielo terso o come viandanti che passano («Ecco un pensiero che viene… ecco un pensiero che va»). La mente viene percorsa da queste ondate mentali, con le loro emozioni, ma l’osservatore resta distaccato, indisturbato, tranquillo.

Un quarto metodo consiste nel distrarre appositamente la mente, concentrandola in un’unica attività: per esempio, contando i respiri (nell’alzarsi e nell’abbassarsi dell’addome, oppure nel passaggio dell’aria attraverso le narici), o utilizzando un mantra, da ripetere incessantemente, soprattutto nel momento in cui nasce un pensiero. Così si cerca di ridurre il complesso dell’attività mentale a un unico pensiero. Ci si può servire a questo scopo anche di musica […]

Rinunciare al controllo della mente: essere presenti

In effetti, per mettere a tacere la mente, non basta operare con questi metodi, che rappresentano pur sempre altre attività mentali. Occorre invece introdurre un nuovo impulso, qualcosa che non sia più un prodotto dell’ego condizionato.

Questo nuovo impulso, questa diversa forza, è già presente in noi, ma è come una voce flebile. Ora che abbiamo un po’ calmato il chiasso interiore, possiamo udirla meglio. Ed è per questo che la meditazione si configura come una tecnica di ascolto. Dopo essere passati attraverso la fase di acquietamento e quella di «presa di distanza» dalla mente, ecco che dobbiamo identificare ciò che non è mente, ciò che non proviene dall’io.

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L’idea stessa di «controllo mentale» si rivela inadeguata: ogni operazione di controllo, infatti, implica qualcuno che controlli e quindi una scissione fra soggetto che osserva e oggetto che viene osservato, nonché la necessità di ricorrere a un ulteriore atto di controllo: quello del controllore, e dunque a un’altra scissione, e così via all’infinito.

In realtà, la mente viene sempre controllata dalla mente: se perciò vogliamo uscire da questo circolo vizioso, dobbiamo rinunciare all’idea stessa di controllo. Quello che ci vuole è un diverso centro di attenzione.
L’atto del controllare non si addice allo stato meditativo, che non è una volontà di repressione o di esclusione, ma una forma di attenzione consapevole. Anche il termine «concentrazione» può indurre qualche equivoco: non si tratta infatti di focalizzare il pensiero in un unico punto, come spesso si sente dire, bensì di concentrarsi, ossia di trovare un nuovo centro dell’attività psichica.

Tra i due tipi di concentrazione corre la stessa differenza che esiste fra chi si concentra, per esempio, per studiare una materia indifferente o sgradita — e quindi si sforza con la volontà e cerca di escludere tutto il resto — e chi, essendo assorbito in qualcosa di estremamente interessante e piacevole, non deve esercitare nessuno sforzo di volontà.

Questo secondo tipo di concentrazione, nella meditazione, è sollecitato da una sensazione di piacevolezza che scaturisce dal profondo. In tal senso si è «centrati in sé», non più nel vecchio e piccolo ego. Si tratta dunque di compiere un salto interiore, come un elettrone che passi da un’orbita bassa a una più elevata.

Ma la meditazione ha un’altra caratteristica: nella sua fase finale non è una forma di esclusione della comune attività mentale, bensì è un essere presenti, un vivere non-mentale: si è in rapporto con il mondo senza l’interposizione della mente centrata nell’ego. Questo stato non è artificiale, non è il prodotto di chissà quali operazioni; sarebbe uno stato naturale, uno «stato di grazia» spontaneo, se non venisse continuamente oscurato proprio dall’attività conoscitiva consueta: idee, immaginazioni, pulsioni di ogni genere, princìpi acquisiti, reazioni condizionate, ricordi, «modi di pensare» convenzionali… insomma tutta l’eredità del passato, il karma.

Come controllare la mente in meditazione tecniche Manuale Lamparelli

La meditazione significa spostare l’attenzione su un nuovo centro

Però questo stato di liberazione non è il frutto né di un atto di volontà (ancora centrato sull’ego che vuole acquisire) né di una grazia superiore; al contrario, è dovuto a una riscoperta dentro di sé di una sorgente di piacevolezza (ananda), che è collegata sia allo stato di quiete del corpo sia alla «presa di distanza» dalla mente.

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La sensazione vincente proviene dal fondo dell’essere e non è sostanzialmente legata né alla mente né all’io. È una specie di leitmotiv, messo in azione dall’energia creatrice e connesso all’essere in sé: se infatti non fosse così, non ci sarebbe nessun motivo, nessun vantaggio, a essere… e non ci sarebbe nulla.

Ma l’artificiosità della vita umana, le sue ansie, le sue preoccupazioni, i suoi falsi obiettivi, l’educazione, ecc., si sovrappongono a questo «motivo» e, a poco a poco, lo cancellano.

Quando lo Zen ci invita a recuperare la «mente originale» o la «non-mente», o quando Gesù ci invita a «tornare bambini» per ottenere il «regno dei cieli», esprimono metaforicamente questa stessa idea di uno stato primigenio, di un «paradiso perduto», di un Eden smarrito per trascuratezza, per disattenzione, por una volontà di acquisizione egoica. Le Upanisad ci parlano del «tesoro» seppellito dentro di noi, il Dhammapada ci dice chiaramente che i «disattenti» sono come morti e il Taoismo ci invita a tornare allo stato di «legno grezzo».

È dunque necessario compiere quest’opera di recupero, di sensibilizzazione del «senso interno», dell’«emozione primaria», della «consapevolezza fondamentale». Si tratta non di «controllare» qualcosa, ma di spostare l’attenzione verso qualcos’altro, verso il fondo di sé: questa è meditazione.

Ricapitolando il percorso fin qui compiuto, abbiamo:

1) tranquillizzato e immobilizzato il corpo,

2) ottenuto una sensazione di benessere,

3) calmato la mente e trasferito a essa il senso di piacere,

4) spostato l’attenzione sull’attività mentale,

5) «preso la distanza» dall’io abituale,

6) fatto emergere e identificato il nuovo centro,

7) ci siamo immedesimati in esso e …

8) abbiamo ritrovato la beatitudine, l’ananda originale, pur continuando l’attività riflessiva.

Questo centro, che le Upanisad chiamano atman o , non è più il vecchio io; infatti, si è rivelato dopo che abbiamo messo tra parentesi l’attività mentale centrata egoicamente. È a questo punto che si manifesta il «Sé interiore di tutte le creature», «più sottile del sottile», «impensabile», «arcano» e «risplendente» (Maitry-upanisad).

(Tratto da 'Manuale di Meditazione' - Claudio Lamparelli)

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